Sicurezza a scuola

Le tipologie di rischi riscontrabili all’interno di una scuola di ogni ordine e grado non differiscono molto da quelle oggetto di una Valutazione di Rischi in un ambiente di lavoro in cui siano presenti molte persone contemporaneamente, anche se nella fattispecie si deve necessariamente considerare il fatto che la maggior parte degli alunni sono minorenni, spesso anche con le caratteristiche proprie dell’età adolescenziale e infantile e/o con ridotta capacità motoria o sensoriale.

Solitamente i principali rischi che si corrono in ambiente scolastico sono quelli infrastrutturali e relativi alla classificazione della scuola quale attività definita a rischio incendio, all’organizzazione e gestione delle emergenze, alla soggettività e valutazione del rischio Stress Lavoro Correlato, prevalenti rispetto a quelli connessi all’uso di videoterminali o a cadute accidentali; esistono poi rischi correlati alla presenza e all’utilizzo dei laboratori didattici, in alcuni istituti anche di carattere prettamente professionale, ambienti per i quali possono essere necessarie valutazioni specifiche per le componenti correlate al Rischio Chimico, piuttosto che a quello Biologico, a Vibrazioni o altro.

Il D.lgs. 81/08 precisa che alla definizione di “Lavoratore” sono equiparati gli allievi degli Istituti di Istruzione e che nel campo di applicazione della normativa rientrano, a pieno titolo, anche le scuole (art. 3).

In questo particolare momento che stiamo vivendo, però, il “rischio legato alla presenza”, diventa un elemento non più marginale bensì di fondamentale importanza. Grande è pertanto l’esigenza di valorizzare la tematica della sicurezza durante il periodo scolastico così da permettere di possedere quelle conoscenze e quella sensibilità necessaria che può fare la differenza e consentire, anche al di fuori della scuola, l’adozione di un comportamento sicuro.

Accanto però ad una formazione che faccia crescere comportamenti virtuosi è anche necessario attenersi alle regole via via emanate dalle competenti istituzione.

Si riporta, a tal fine, la circolare emanata dal Ministero della salute il 24 settembre che regolamenta la gestione dei contagi a scuola. Infatti, in caso di assenza, senza tampone non si potrà tornare a scuola: “In presenza di sintomatologia sospetta, – si legge nella circolare – il pediatra di libera scelta (PLS)/medico di medicina generale (MMG), richiede tempestivamente il test diagnostico e lo comunica al Dipartimento di Prevenzione (DdP), o al servizio preposto sulla base dell’organizzazione regionale”.

Il Dipartimento di Prevenzione (DdP), o il servizio preposto sulla base dell’organizzazione regionale, provvede all’esecuzione del test diagnostico. Se il caso viene confermato, il DdP si attiva per l’approfondimento dell’indagine epidemiologica e le procedure conseguenti.

La circolare sottolinea che gli operatori scolastici e gli alunni hanno una priorità nell’esecuzione dei test diagnostici e riprende i quattro scenari di cui parla il documento dell’Istituto Superiore di Sanità “Indicazioni operative per la gestione di casi e focolai di SARS-CoV-2 nelle scuole e nei servizi educativi dell’infanzia” e che concorrono a definire un “caso sospetto”.

 

Di seguito i chiarimenti sulle procedure da attuare.

  • Alunno/operatore scolastico negativo al test diagnostico per SARS-CoV-2

Se il test diagnostico è negativo, in paziente sospetto per infezione da SARS-CoV-2, secondo sua precisa valutazione medica, il pediatra o il medico curante, valuta il percorso clinico/diagnostico più appropriato (eventuale ripetizione del test) e comunque l’opportunità dell’ingresso a scuola. In caso di diagnosi di patologia diversa da COVID-19, la persona rimarrà a casa fino a guarigione clinica seguendo le indicazioni del PLS/MMG.

  • Alunno od operatore scolastico convivente di un caso accertato

Si sottolinea che qualora un alunno o un operatore scolastico fosse convivente di un caso, esso, su valutazione del Dipartimento di prevenzione, sarà considerato contatto stretto e posto in quarantena. Eventuali suoi contatti stretti (esempio compagni di classe dell’alunno in quarantena), non necessitano di quarantena, a meno di successive valutazioni del Dipartimento di Prevenzione in seguito a positività di eventuali test diagnostici sul contatto stretto convivente di un caso.

  • Attestazione di nulla osta all’ingresso o rientro in comunità dopo assenza per malattia

In caso di test diagnostico per SARS-CoV-2 con esito positivo, il PLS\MMG, dopo aver preso in carico il paziente ed aver predisposto il corretto percorso diagnostico\terapeutico predispone, dopo la conferma di avvenuta guarigione, con l’effettuazione di due tamponi a distanza di 24 ore, l’uno dall’altro risultati negativi, “Attestazione di nulla osta all’ingresso o al rientro in comunità”. In caso di patologie diverse da COVID-19, con tampone negativo, il soggetto rimarrà a casa fino a guarigione clinica seguendo le indicazioni del PLS/MMG che redigerà una attestazione che l’alunno/operatore scolastico può rientrare scuola poiché è stato seguito il percorso diagnosticoterapeutico e di prevenzione per COVID-19, come disposto da documenti nazionali e regionali.

A cura di Valeria Lupidi – Vice Presidente ANCIS

PERCEZIONE E COMUNICAZIONE DEL RISCHIO, IL CASO COVID19

Il seguente testo è un estratto dall’intervento tenuto sabato 30/05/2020 nell’ambito del workshop “FIR Campania: strategie per la ripartenza” – con tematica “Gestione della comunità societaria: aspetti mentali e manageriali – organizzato dal Comitato Regionale Campania della Federazione italiana Rugby

 

Da qualche mese il principale argomento di conversazione e la maggiore preoccupazione delle persone è il COVID19 le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Senza entrare nel merito delle cifre, che peraltro ovviamente variano di giorno in giorno, vorrei focalizzarmi su due aspetti che questa crisi sanitaria ha fatto emergere: la comunicazione e la percezione del rischio.

Al momento non abbiamo ancora informazioni precise sulle caratteristiche del virus, nè su quali politiche di prevenzione e contenimento siano più efficaci, sembrerebbe quindi che proprio questa incertezza sia alla radice della grande preoccupazione legata al virus e ne condizioni anche il modo in cui ne percepiamo il rischio.

La percezione del rischio è una prerogativa chiave di molte teorie sul comportamento, tra queste troviamo la “Teoria della motivazione a proteggersi” secondo la quale, la motivazione a proteggersi dalla malattia  è il prodotto della percezione della gravità della minaccia, della percezione di vulnerabilità personale e dell’efficacia della risposta di coping (in psicologia il termine coping traducibile dall’inglese come “strategia di adattamento”, indica l’insieme dei meccanismi psicologici adattivi messi in  da un individuo per fronteggiare problemi emotivi ed interpersonali, allo scopo di gestire, ridurre o tollerare lo stress) nel ridurre la minaccia. La valutazione della minaccia consisterebbe dunque sostanzialmente in stime della probabilità di contrarre la malattia e della sua gravità.

Alla costruzione sociale del rischio concorrono molti fattori, anche piuttosto diversi tra loro: da un lato la scienza e la fiducia che le persone hanno in essa giocano un ruolo chiave, dall’altro lo stesso fanno elementi simbolici e irrazionali.

La percezione del rischio è però spesso distorta da errori cognitivi e quindi si può avere una sovrastima o una sottostima del rischio.

L’eccessivo ottimismo rispetto ai rischi per la salute è spesso osservato in relazione a rischi familiari, che seppure evidenti e noti, sono spesso percepiti in gran parte sotto controllo volontario (pensate a persone obese, o chi fuma e dice smetto quando voglio, o quando si crede che certe cose possano succedere solo agli altri). Questo ottimismo può comportare una errata percezione di sicurezza e la conseguente mancanza di giuste precauzioni. Ne risulta che alcune persone ritengono di poter controllare la loro esposizione alle malattie, di non aver bisogno di un vaccino perché meno sensibili alle malattie.

Solitamente invece, un pregiudizio pessimistico è più comune per i rischi percepiti come nuovi o meno familiari, ritenuti pertanto incontrollabili. Queste percezioni di rischio molto elevato, e a volte ingiustificato, possono portare al panico di massa e anche alla stigmatizzazione di specifici gruppi a rischio.

Perché le persone intraprendano volontariamente azioni precauzionali (quindi adeguate alla reale situazione) è necessario che queste siano prima di tutto consapevoli del rischio. Infatti le persone adottano comportamenti adeguati quando ritengono che siano realmente disponibili azioni protettive efficaci e quando ritengono di essere in grado di impegnarsi per adottare quel comportamento.

La gestione efficace dei rischi delle malattie, quando non è disponibile un vaccino, dipende in gran parte dal comportamento precauzionale della popolazione e questo, a sua volta, dipende in gran parte da una corretta comprensione del rischio, cioè una comunicazione che induca percezioni realistiche del rischio assieme ad una giusta competenza per promuovere e mettere in campo pratiche precauzionali.

Quando siamo insicuri e incerti su qualcosa facciamo affidamento sulle nostre sensazioni e su esperienze precedenti, invece che alle informazioni che ci vengono date. Ne sono un esempio le mascherine: indossarle o no. La diatriba è ancora aperta.

Il clima di incertezza rappresenta poi il terreno fertile per far fiorire la disinformazione, questo è il motivo per cui messaggi chiari, provenienti da fonti attendibili e indicazioni su cosa fare e come farlo sono essenziali durante la diffusione di un virus.

Messaggi di comunicazione del rischio che non sono compresi dal pubblico o che sono discordanti comportano inevitabilmente la mancanza di azioni precauzionali.

“Per comunicare efficacemente non basta utilizzare dati oggettivi o un approccio razionale, perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto e alle credenze delle persone”.

Purtroppo però i messaggi che comunicano rischi e allerte fanno gola ai media col risultato di una pericolosa e imprecisa amplificazione delle informazioni sul rischio reale che può portare al panico o, viceversa, al non fare nulla per proteggersi.

Sappiamo che in attesa di trattamenti specifici e di un vaccino i comportamenti previsti dei singoli (lavarsi le mani, gel , mascherina, distanza) sono le uniche armi che abbiamo per la gestione dell’emergenza.

Ma se i cittadini non hanno la percezione del rischio di contagio o sono terrorizzati, non attueranno queste prescrizioni perché ad influenzare il loro comportamento ci saranno i canali di comunicazione e le loro caratteristiche psicologiche.

Abbiamo avuto esempi di come la nostra valutazione del rischio non sempre segue logiche razionali (assalto ai supermercati appena attuata la “chiusura totale”, favorendo così il contagio).

L’incertezza dovuta poi alla novità porta a cercare informazioni  dappertutto, compresi i social, arrivando così ad avere anche false notizie o un eccesso di comunicazione.

Come comportarsi allora nell’ambito sportivo (e non solo) per rassicurare, ma senza abbassare gli allerta per la sicurezza?

Uno studio fatto nel Regno Unito suggerisce alcuni principi base per una efficace comunicazione sul covid19.

Il primo punto: l’obiettivo principale della comunicazione è mantenere la fiducia dei cittadini e poiché medici e scienziati hanno autorevolezza, sono quelli più capaci di diffondere fiducia nella comunità.

La comunicazione deve essere quanto più chiara e precisa in modo che non abbia bisogno di essere poi soggettivamente elaborata.

Perché le istruzioni da seguire vengano attuate occorre che siano comunicate in maniera semplice e facile da ricordare.

Man mano che si hanno più notizie sul virus occorre darle per ridurre il senso di incertezza.

Trasparenza operativa: mostrare il lavoro svolto dai vari operatori, cosa fanno le autorità per aiutare concretamente le persone nella gestione dell’emergenza.

Fare una comunicazione specifica e non generalizzata (diversi luoghi e diverse situazioni).

Evidenziare l’utilità percepita delle misure di contenimento adottate.

 

Valeria Lupidi – Vice Presidente ANCIS