IL TESTO “BULLISMO E CYBERBULLISMO” DISTRIBUITO AL CONVEGNO ANVU 2019

Il volume “Bullismo e Cyberbullismo – aspetti teorici e pratici per operatori di Polizia” è stato ufficialmente distribuito in occasione del Convegno Nazionale dell’ANVU Associazione Professionale Polizia Locale d’Italia.

Edito nel 2017, il testo scritto da Gianandrea Serafin (consigliere ANCIS) e Valeria Lupidi (Vice Presidente ANCIS) è stato adottato dall’ANVU come testo di riferimento per i propri corsi di formazione del personale.

Aggiornato con Legge n. 71/2017 sul Cyberbullismo – Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo del MIUR, ottobre 2017, il libro è disponibile su Amazon nella sua versione originale “CHE COS’E’ IL BULLISMO – per capirne di più“.

Nella foto a sinistra il Consigliere dell’Associazione Nazionale Collaboratori Intelligence & Security Gianandrea Serafin che posa con il volume tra le mani pochi minuti dopo la distribuzione al Convegno ANVU 2019 di Jesolo.

LA “NUOVA” LEGITTIMA DIFESA

È stata definitivamente approvata la nuova normativa recante importanti modifiche al codice penale ed alle altre disposizioni in materia di legittima difesa.

L’art.52 c.p. pertanto ora sancisce che “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.


Come spesso succede, su tale nuova normativa sono già state fatte speculazioni evocando possibili futuri scenari da far west.
È bene invece evidenziare che nei casi previsto dall’art.614 c.p. (violazione di domicilio), primo e secondo comma, sussiste sempre il rapporto di proporzione nei casi in cui “taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o la altrui incolumità, o i beni propri o altrui, quando vi è pericolo di aggressione”.
Chi si difende con un’arma in casa da una aggressione, causando danni fisici al ladro, anche con la nuova norma, sarà sottoposto a indagini ed un giudice dovrà valutare se e come procedere. Vero è però che adesso sono più rigide le possibili interpretazioni in quanto nella legittima difesa, che va ricordato venne già rafforzata sia nel 2007 che nel 2017, adesso si considera sempre sussistente il rapporto di proporzionalità tra offesa e difesa in quanto “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica”.
Un punto interessante della nuova norma è il concetto nella stessa richiamato di “grave turbamento”, infatti la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto. Il concetto di grave turbamento è molto ampio ricomprendendo l’età dell’aggredito, le donne sole, i figli minori ecc. Il grave turbamento quindi si presta ad infinite interpretazioni anche di natura personale e psicologica.
Viene però da domandarsi: chi trovandosi un ladro in casa che lo aggredisce non cada in preda di grave turbamento!
La nuova norma poi prevede quale deterrente per i reati predatori, un inasprimento delle pene previste.

In conclusione, il legislatore, seppure riconoscendo il diritto alla difesa a coloro che vengono aggrediti nelle loro abitazioni o nel luogo dove lavorano (es. negozio), non esclude la competenza del giudice nella valutazione della risposta posta in essere a seguito di tale aggressione, non andando quindi a legittimare senza riserve l’uso della forza come in alcuni casi si è cercato di far credere.


A cura di Valeria Lupidi

Vice Presidente ANCIS

IL LIBRO “BULLISMO E CYBERBULLISMO” DIVIENE TESTO ANVU

BULLISMO E CYBERBULLISMO – Aspetti teorici e pratici per operatori di polizia è il volume adottato come libro di testo dall’ANVU – Associazione Professionale Polizia Locale d’Italia.

Redatto nel 2017 da Gianandrea Serafin e Valeria Lupidi, rispettivamente Consigliere e Vice Presidente dell’ANCIS – Associazione Nazionale Consulenti Intelligence & Security, il libro è stato fatto proprio ed adottato dall’ANVU come testo di riferimento per i propri corsi di formazione del personale.
Aggiornato con Legge n. 71/2017 sul Cyberbullismo – Linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo del MIUR, ottobre 2017, il libro è disponibile su Amazon nella sua versione originale “CHE COS’E’ IL BULLISMO – per capirne di più“.
ABSTRACT:
Da molti anni ormai si parla di bullismo, se ne analizzano gli aspetti e si cercano rimedi. Le statistiche però ci dicono che il fenomeno non è assolutamente in diminuzione, nonostante le campagne di sensibilizzazione adottate e l’attenzione che viene data al fenomeno nelle scuole.
Viene da chiedersi allora perché, a fronte di tanto interesse per “demolire” il fenomeno, se ne riscontra un aumento. Forse la risposta è nelle sue metamorfosi. Incredibilmente il bullismo invece di regredire si adegua ai cambiamenti della società: cresce con l’affermazione femminile insinuandosi sempre più tra le ragazze; sfrutta la tecnologia e le possibilità offerte dalla rete per diventare “cyber”; cavalca l’onda delle differenze di genere per assumere una dimensione omofonica. È quindi importante prendere atto di questi cambiamenti per capirne i risvolti e le possibili conseguenze.
Ogni fenomeno collettivo è uno spaccato della società e del periodo in cui si vive. Il bullismo non fa eccezione.
GLI AUTORI:
Valeria Lupidi (Roma, 1961) sociologa e criminologa è Funzionario del Ministero dell’Interno presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale. Docente presso numerosi Enti, collabora stabilmente con l’Università di Castel Sant’Angelo di Roma, ove dirige diversi Master e Corsi di Alta formazione. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche.
Gianandrea Serafin (Jesolo 1983) sociologo, criminologo e criminalista è Agente Scelto di Polizia Locale a Vigonza (PD). Svolge funzioni di Magistrato onorario presso il Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Formatore in ambito giuridico, criminologico e di polizia giudiziaria, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche. Socio ANVU e volontario di Croce Rossa Italiana.

LA VIOLENZA DI GENERE

Secondo la definizione dell’ONU del 1993 la violenza di genere è “…ogni atto di violenza fondato sul genere che comporti o possa comportare per la donna danno o sofferenza fisica, psicologica o sessuale, includendo la minaccia di questi atti, coercizione o privazioni arbitrarie della libertà, che avvengano nel corso della vita pubblica o privata…” (art.1).
La violenza di genere costituisce una tipologia di reato in costante espansione e di continuo interesse da parte della comunità scientifica.

Il fenomeno nella sua globalità è complesso da analizzare  in quanto vi è la tendenza degli autori di reato a contenere gli episodi perlopiù entro le mura domestiche e ciò comporta, dato il legame spesso di natura intrafamiliare tra autore e vittima, il silenzio di quest’ultima che concorre ad accrescere il cosiddetto “numero oscuro”.

Da ciò derivano i limiti dell’analisi di un fenomeno per sua natura sommerso, del quale non è facile tracciare i contorni.
Una conoscenza approfondita del fenomeno nel suo insieme tuttavia, è essenziale per lo sviluppo delle politiche e dei servizi, a partire dalle campagne di sensibilizzazione per arrivare alle contromisure legislative finalizzate a prevenire e/o contenere la violenza.

Va però rilevato, in tema di pari opportunità, come inchieste, sondaggi e ricerche che analizzano tale comportamento deviante e che vengono proposte con continuità a livello istituzionale e mediatico da diversi anni, sono solite prendere in considerazione solo l’eventualità che la vittima della violenza di genere sia donna e che l’autore di reato sia uomo. Seppure le statistiche ci dicono che la percentuale più alta di vittime appartiene al genere femminile, occorre tenere presente anche l’ipotesi che la violenza possa essere subita ed agita da appartenenti ad entrambi i sessi. L’esigenza di una documentazione più ampia, che comprenda ogni aspetto riconducibile alla violenza di genere – non solo quindi l’indagine sulle violenze agite ai danni della figura femminile – viene manifestata da studiosi di diverse discipline (antropologia, sociologia, criminologia, psicologia, giurisprudenza, pedagogia).
Effettivamente, analizzando le manifestazioni della violenza di genere nelle diverse fasi della vita, ci si accorge che pur essendo preponderante la figura femminile, quella maschile non è comunque immune. Le recenti classificazioni possono essere così rappresentate.
Fase prenatale: aborti selettivi, maltrattamento in gravidanza, gravidanza forzata;
Fase dell’infanzia: infanticidio selettivo, maltrattamento, violenza assistita, abuso sessuale;
Fase della preadolescenza: matrimoni coatti, mutilazioni genitali, violenza sessuale, prostituzione infantile.
Molti teorici si occupano del fenomeno della violenza di genere ed alcune teorie sono state elaborate al riguardo (principalmente sulla donna vittima). Una delle principali teorie pone alla base della dinamica violenta il controllo. Esso viene esercitato sia da chi maltratta attraverso tutta quella serie di comportamenti che trascinano verso la dipendenza e la sudditanza, sia da chi subisce, la donna infatti tiene sotto controllo la rabbia del partner, sente in sé il peso della sua missione salvifica verso il suo partner, ma più si sforza in questa impresa, più è convinta che lui cambierà più affonda.

Da qui ad arrivare alle esplosioni di violenza il passo non è tanto distante. Tali forme di violenza sono ormai talmente frequenti che si è arrivati a creare un termine specifico: femminicidio.


A cura di Valeria Lupidi
Vice Presidente ANCIS

RIFUGIATI E MIGRANTI ECONOMICI

La distinzione tra rifugiati e migranti economici è stata introdotta da tale Egon Kunz, uno studioso di migrazioni che aveva elaborato la teoria detta push/pull Theory. Kunz in effetti intendeva differenziare chi parte per necessità, cioè i pushed, destinati a diventare rifugiati, da chi parte per scelta, i pulled, attratti da migliori prospettive economiche.




Con il tempo tale distinzione è apparsa sempre più forzata fino a diventare un’etichetta rassicurante per gli Stati su chi accogliere e chi respingere. Col tempo è sempre più emersa una multifattorialità di motivi che conducono alla scelta di lasciare il proprio Paese ed anche nel nostro tempo è ormai assodato che, a parte pesanti situazioni di guerra come ad esempio quelle attuali in Siria, non c’è mai un solo fattore che porta ad emigrare, ma un complesso mix che racchiude instabilità politica e militare, persecuzioni, difficile situazione economica, reti sociali già presenti in altri Paesi ecc.

In questo maremagnum di situazioni è difficile scindere quella politica, economica, o sociale ed etichettare le persone come rifugiati o migranti economici. Non bisogna poi dimenticare che l’asilo è un privilegio concesso dallo Stato, non una condizione inerente all’individuo, quindi è lo Stato che decide se darlo o no in funzione di una serie di motivazioni che, a ben vedere, sono estremamente soggettive del Paese di accoglienza.

Un esempio può rendere meglio l’idea: nel 2007 dei 18.559 iracheni che hanno fatto domanda di asilo in Svezia l’82% è stato riconosciuto come rifugiato, dei 5.474 che lo hanno chiesto in Grecia, lo ha ottenuto lo 0%.Questo sta a dimostrare che gli Stati occidentali utilizzano l’asilo politico come strumento di protezione umanitaria e tutela dei diritti, ma anche come modalità di regolazione dei flussi migratori. I Paesi nordici storicamente utilizzano l’asilo politico per selezionare i migranti in ingresso, lo concedono molto, ma limitano invece l’entrata ai migranti economici. Al contrario i Paesi del sud Europa sono più restrittivi in termini di asilo ma più lassisti rispetto ai migranti economici.

Poiché i migranti conoscono bene queste strategie politiche, mettono in atto accorgimenti razionali per raggiungere il loro scopo, non solo per decidere verso quale Paese dirigersi, ma anche per decidere quale storia raccontare per ottenere lo status di rifugiato avviando così una sorta di commercio di informazioni per far si che i nuovi partenti siano consapevoli di come funziona la richiesta di asilo.

Ci sono quindi tempi storici ed emergenze a regolare il fenomeno migratorio. Quello attuale è sicuramente legato alla condizione della Libia e della Siria, ma nel passato abbiamo avuto l’emergenza kossovara e quella somala per cui tutte le persone provenienti da quei contesti, a prescindere dalle condizioni individuali che dovrebbero essere il parametro per assegnare o meno lo status di rifugiato, tendevano a riceverlo in una sorta di “tutela di gruppo”.

Resta il fatto che qualunque siano le motivazioni e le cause che portano migliaia di persone ad allontanarsi dal loro Paese di origine, ad affrontare viaggi “della speranza” per arrivare in luoghi dove ritengono di trovare migliori condizioni di vita, le conseguenze sono sicuramente di impatto per chi parte e per chi li accoglie.

E tutto ciò muove insieme a tanta gente anche tantissimo denaro ed alla fine, forse, è proprio il denaro a mettere in moto l’intero ingranaggio: il denaro che chi parte deve riuscire a trovare per pagarsi il viaggio; il denaro che guadagnano gli scafisti e tutte le organizzazioni criminali che fanno affari col traffico di esseri umani; il denaro che arriva (da dove?) alle Ong per svolgere la loro opera di salvataggio; il denaro che i governi impegnano per finanziare i centri di accoglienza.

E poi il denaro prodotto dal lavoro nero che fa arricchire i singoli, visto che non è tassato, e non certo lo Stato accogliente; il business della criminalità organizzata che sfrutta queste situazioni per arricchirsi. Gli immigrati vittime di reati e i migranti che i reati li compiono: tutto questo ha un costo che paga la società.

Infine il terrorismo, piaga di questi anni, ma questo è un altro discorso.



A cura di Valeria Lupidi
Vice Presidente ANCIS

SPRAY AL PEPERONCINO: FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA

È l’ultima fobia di questi giorni: lo spray al peperoncino sta seminando il panico in tutta Italia soprattutto dopo gli eventi nella discoteca di Corinaldo dove un minorenne avrebbe spruzzato lo spray urticante provocando la morte ed il ferimento di molti ragazzi. Immediatamente dopo tale drammatico evento sono stati resi noti altri due episodi che hanno coinvolto studenti e bombolette anti-aggressione: uno in un istituto superiore di Pavia dove quasi 50 persone sono rimaste intossicate dai vapori dello spray spruzzato presumibilmente da un alunno, ed un secondo in una scuola in provincia di Cremona dove una studentessa, sembra per una spruzzata fatta “per scherzo” ha fatto finire in ospedale cinque compagni.

Secondo una rilevazione fatta da Skuola.net mediante un sondaggio nelle scuole italiane, è emerso che circa 1 studente su 10  dichiara di possedere una bomboletta con spray urticante, di questi, il 6% la porta sempre con sé ed il 48%  di questi l’ha azionata almeno una volta per difesa personale. Fatto ancora più grave è che il 40% l’hanno messa in funzione per provare che effetto fa e non per reale necessità.
Tali dati allarmanti non possono però non ricondurre la riflessione sul ruolo genitoriale, sono infatti quest’ultimi che dotano i ragazzi di tali strumenti, senza però dedicare adeguato tempo ed impegno a spiegarne l’uso e le sue conseguenze.
Facciamo allora un po’ di chiarezza. Il gas OC (da oleoresin capsicum) conosciuto anche come Oleoresium Capsicum, è una sostanza naturale che sfrutta le proprietà vasodilatatorie del principio attivo, la capsaicina, e che viene utilizzato principalmente negli spray al peperoncino per difesa personale.
Di solito il gas OC viene immagazzinato in bombolette facili da trasportare. Lo spray causa principalmente una infiammazione agendo in particolare sugli occhi e sulle mucose. Tra gli effetti immediati vi sono bruciore, tosse e lacrimazione e per tale motivo si ritiene utile in caso di aggressione. Va però ricordato che senza una adeguata istruzione per l’utilizzo, il rischio è che la vittima dell’aggressione, invece di spruzzarlo verso lì’aggressore, lo rivolga verso se stessa con conseguenze immaginabili.
La sempre maggiore diffusione di questi spray e la loro facilità di reperimento su internet, hanno portato i vari Paesi a regolamentarne l’utilizzo. Ogni Stato quindi attua una propria politica riguardo all’uso dello spray al peperoncino che spazia dal considerarla un’arma e quindi regolamentarne l’utilizzo (come avviene in Belgio dove solo la polizia è autorizzata all’utilizzo o in Finlandia dove il possessore deve avere specifica licenza), a ritenere reato il suo possesso e utilizzo (come ad Hong Kong).
In Italia il gas OC è stato per lungo tempo considerato un’arma propria, l’uso era consentito solo per tre tipi di prodotti elencati sul sito della Polizia di Stato e approvati dal Ministero dell’Interno, dei quali era consentito l’uso, il trasporto e il porto senza autorizzazione prefettizia. Il 12 maggio 2011, con decreto n. 103, il Ministero dell’Internoha liberalizzato l’acquisto, la detenzione e il porto in pubblico per tutti i maggiori di 16 anni di ogni e qualsiasi strumento di autodifesa che nebulizzi un principio attivo naturale a base di Oleoresin capsicum e che non abbia attitudine a recare offesa alla persona. Per risultare di libera vendita e libero porto però tali strumenti devono avere specifiche caratteristiche connesse alla loro concentrazione,  alla miscela , essere sigillati alla vendita e muniti di sistemi di sicurezza per l’attivazione, avere una gittata non superiore a tre metri.
Anche in presenza di tali restrizioni resta comunque la perplessità sulle modalità di utilizzo, uno strumento di per se non è né buono, né cattivo: fondamentale è l’uso che se ne fa. E spruzzare spray urticante in luoghi chiusi ed affollati come discoteche o anche scuole non evidenzia certo adeguate capacità di discernimento, né conoscenza delle possibili conseguenze derivanti da un gesto avventato.


A cura di Valeria Lupidi
Vice Presidente ANCIS

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TEORIE DEL COMPLOTTO: SONO SEMPRE FRUTTO DI FANTASIA? – approfondimento

I complotti sono sempre esistiti. 

E’ una storia antica quanto quella dell’Uomo stesso. Da una parte vi sono quelli che ritengono ogni accadimento il prodotto di un presunto complotto, dall’altra quelli che pensano che non esista mai alcuna cospirazione, neppure quando la presenza di qualcuno che ha agito “dietro le quinte” risulta assai probabile. Eppure, un modo per provare a comprendere chi abbia ragione tra “complottisti” e “anticomplottisti” esiste: documentare i complotti, non limitandosi soltanto ad evocarli. 



Umberto Eco, afferma che tutti cercano di giustificare accadimenti anche molto semplici e quotidiani con un qualche complotto ordito da chicchessia:
“I complotti funzionano così. Sei chiuso in un ingorgo sull’autostrada, tutti imprecano, colpa del ministro, colpa delle riparazioni, colpa dei Tir, ma la “colpa” è di nessuno, solo migliaia di auto in coda. […]. Il primo libro sui complotti è l’Iliade, rissa degli dèi, colpa loro mica di achei e troiani! Poi colpa dei cristiani che bruciano Roma, dei cavalieri templari, dei massoni. Ricordi il terrorismo italiano? Si parlava di “Grande Vecchio” perché trentenni inesperti non potevano progettare il rapimento di Moro. Quando li han presi ci siamo accorti che erano trentenni, il Piccolo Giovane aveva messo in crisi la Repubblica. Perché la teoria del complotto nasconde la realtà, non la illumina. (Umberto Eco – Da “La Stampa”).”
Leggendo questo pezzo ben si comprende come la pensasse Eco a tal proposito, quanto strizzasse l’occhio alla compagine degli scettici per antonomasia. Ma è pur vero che se prendiamo in esame alcune sue famose opere possiamo facilmente percepire quanto questo autore fosse interessato, ad esempio, a determinate società segrete esoterico-speculative, realtà che attraverso il collocamento di propri uomini in “posti chiave”, hanno con buona probabilità contribuito veramente a più di una cospirazione di natura socio-politica nei secoli, e in differenti zone del globo terraqueo.

Inoltre, a testimonianza del fatto che non tutti quelli che “gridano alla congiura” sono dei cospirazionisti o dei folli, va ricordato che nello scenario nazionale ed internazionale il complotto è stato senza ombra di dubbio utilizzato in ogni epoca storica, in quanto mezzo più idoneo di tanti altri a minimizzare le possibilità di fallimento. Per ottenere un obiettivo pianificato occorre, infatti, prestare massima attenzione alla segretezza, possedere scaltrezza nell’azione ed avere la capacità di veicolare solo e soltanto quelle informazioni funzionali al raggiungimento del risultato stabilito a monte. Per fare tutto ciò, è piuttosto logico che sia fondamentale creare salde alleanze tra soggetti diversi, alleanze che il più delle volte, però, non possono essere rivelate candidamente al grande pubblico per non doverne pagare dopo lo scotto in termini di consenso elettorale.
Oggi, più che in altri tempi, possiamo osservare come si tenti costantemente di destabilizzare l’avversario medianti pesanti pressioni mediatiche, tramite accuse talvolta vere, ma molto più frequentemente infondate. Nell’informazione, non è affatto difficile assistere a campagne giornalistiche tese a screditare pesantemente un personaggio del mondo pubblico o istituzionale e l’ambiente del quale esso fa parte, servendosi di colpi bassi e spregiudicati a base di “negazioni del vero” e “autenticazione del falso”, finanche sul piano personale, relazionale e familiare.

E’ da questi punti, dunque, che si deve partire per valutare quanto la cospirazione abbia influito nella vicende umane: i complotti non possono spiegare sempre e comunque l’esito di un confronto, come viene rimproverato a coloro che scioccamente ne fanno l’unica chiave di lettura, ma ipotizzarne l’esistenza, analizzarli con sano distacco da buoni studiosi ed eventualmente decifrarli, aiuta grandemente a comprendere quanto questi siano stati o meno reali, ed anche a quantificare l’apporto fornito al raggiungimento dell’obiettivo per il quale gli stessi sarebbero stati orditi.

Su certe vicende italiane, è inevitabile pensare che qualche piano segreto vi sia stato: prendiamo, ad esempio, il sequestro e assassinio del presidente della Democrazia Cristiana (DC) Aldo Moro o l’attentato di Enrico Berlinguer (PC) a Sofia. Per gli USA, l’intenzione di Moro di cooptare al potere il Partito Comunista comportava il rischio di incrinare equilibri e rapporti diplomatici nel nostro Paese. Per l’URSS una cosa del genere poteva incentivare addirittura il pericolo di una sedizione dei propri partiti satelliti, minando così la solidità del Patto di Varsavia. Pensiamoci bene: queste potevano forse essere verità rivelabili a chiunque, vista la delicatezza del momento storico? La risposta odierna della maggioranza degli italiani sarebbe certamente un “no”. Ma in quel frangente, la popolazione ha vissuto diversamente quei fatti, dandogli nella maggior parte dei casi la lettura che forse qualche “regia occulta” voleva dessero: quella ben più rassicurante e democratica dell’imprevedibilità di qualsiasi incidente, quella che identificava come colpevoli di quegli accadimenti semplici gruppi isolati di fanatici. 

Per non parlare, andando ancora più indietro nel tempo, dell’unificazione d’Italia, dei segretissimi moti risorgimentali alla base dell’eroica (ne siamo sicuri?) impresa garibaldina, del fondamentale ruolo economico della Libera Muratoria inglese nel suddetto progetto nazionale (ruolo concordato a tavolino con i Savoia), di come i Borbone sarebbero dovuti passare per “briganti” sui futuri libri di Storia (quando in realtà i “sabaudi” fecero terra bruciata del Meridione, rendendo arretrata una zona che sotto il Regno delle Due Sicilie era tra le più floride ed anche meglio amministrate del Vecchio Continente).

Il Prof. Aldo Mola, docente di Storia Contenporanea di Milano e storico della massoneria e del Risorgimento disse a proposito dei soldi arrivati da Londra in Italia: 
«Il finanziamento proveniva da un fondo di presbiteriani scozzesi e gli fu erogato con l’impegno di non fermarsi a Napoli, ma di arrivare a Roma per eliminare lo Stato pontificioTutta la spedizione garibaldina fu monitorata dalle massoneria britannica, che aveva l’obbiettivo storico di eliminare il potere temporale dei Papi. Anche gli Stati Uniti, che pur avevano rapporti diplomatici con il Vaticano, diedero il loro sostegno».
Eppure, potrete convenire che questi dettagli della vicenda, che potremmo definire a ragione “non di poco conto”, non vengono riportati praticamente in alcun testo storico scolastico o universitario. Perché questo? Quali sono i motivi di questa scelta? 
A voi la risposta.
In questo momento stiamo vivendo nell’era dei cosiddetti “leoni” o “bulli da tastiera”, uomini che sembrano essere coraggiosi solo da internauti, ma ben poco nella vita reale. Stiamo vivendo nell’era dei “troll”, profili social appositamente creati per delegittimare in branco qualcosa o qualcuno, siamo nell’era degli impavidi “cacciatori di fake-news” o dei “debunker” per inclinazione naturale (sembra che oggi la tendenza di sfatare a tempo pieno presunte tesi complottistiche, che talvolta si rivelano dopo un certo tempo più vere del previsto, sia persino superiore a quella dei cospirazionisti patologici di crearne di nuovi).
Ripetiamolo ancora una volta, dunque, che in questo oceano di informazioni non c’è che un’unica soluzione per potersi destreggiare e capirci qualcosa: quella di studiare, documentarsi e separare con molta pazienza le semplici ipotesi dai fatti oggettivi.
Solo così gli inguaribili cospirazionisti potranno essere isolati e lasciati alle loro colorate quanto catastrofiche idee fantastiche, ma al contempo agli anticomplottisti “a prescindere” (o a quelli in cattiva fede) non verrà fornita la possibilità di bollare come astruse o bizzarre conclusioni realistiche, seppur parecchio scomode, su determinati fatti o tematiche.
A cura di Davide Sallustio

Saggista storico, studioso di Geopolitica e Relazioni Internazionali
Socio ordinario della Società Italiana di studi Militari SISM
Socio simpatizzante ANCIS

  
Fonti web consultate:

IL RITORNO DELL’IMPERO OTTOMANO – approfondimento

L’Impero Ottomano durò dal 1299 al 1922. La Storia non si ripete in modo perfettamente identico, tuttavia ripercorre strade già abbondantemente conosciute. Ci vorrà del tempo per comprendere le dinamiche del golpe in Turchia, ma qualche riflessione è comunque doverosa. L’Islam è indubbiamente un elemento di contrapposizione con l’Occidente, cosa che si nota di riflesso anche su aree in Medio Oriente costantemente destabilizzate.

Gli USA hanno da tempo auspicato un intensificazione del percorso democratico in Turchia. “Stiamo lavorando per organizzare una telefonata tra il presidente Trump e il presidente turco Erdogan per riaffermare i nostri forti legami”. Lo disse la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders in merito all’esito delle presidenziali in Turchia. “Incoraggiamo Ankara – ha aggiunto – a prendere le misure per rafforzare la democrazia e continuare i progressi verso la soluzione delle questioni nelle relazioni bilaterali”.
L’Unione Europea, del resto non è idonea a poter proporre alcuna soluzione stante il perenne conflitto di interessi interno tra le varie Cancellerie. Quindi non è un paradosso quello che stiamo vivendo in questo momento. Erdogan ha riaffermato una leadership islamica ad uso interno, ha bonificato i rapporti con Israele e con la Russia, ha realizzato il grande sogno di ogni leader turco: ristabilire e far rinascere l’Impero ottomano, leggermente rivisitato in chiave moderna.
In questa situazione diventa secondaria pertanto anche l’adesione alla NATO; la posta in gioco è piuttosto ristabilire un’area di influenza, anche militare, in tutto il Medio Oriente, alla luce della naturale sconfitta di Daesh, delle difficoltà che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno in campo finanziario con le ultime politiche petrolifere, per il conflitto in Yemen e per il contenimento dell’influenza iraniana. L’Occidente, pertanto, in una tale situazione d’insieme, sarà costretto nel tempo ad accettare alcune richieste turche, in quanto non disposto a rischiare di essere sopraffatto da un qualcosa che appare (ed è) ostile al suo stile di vita, oltre che progressivamente lontano dai propri interessi economici. Per gli occidentali quindi sarà sempre meglio (almeno per un determinato tempo…) trattare con un leader autoritario ai confini dell’Europa, capace di limitare le suddette minacce, piuttosto che combatterlo.
Nei fatti Erdogan ha già “battuto cassa” in zona UE, lucrando un prezzo piuttosto alto, in cambio di una determinata politica contenitiva sui profughi.
A cura di di Davide Sallustio

Saggista storico, studioso di Geopolitica e Relazioni a Internazionali
Socio ordinario della Società Italiana di Studi Militari (SISM)
Socio simpatizzante ANCIS


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IL CASO LIBIA E LE ONG – approfondimento

La Libia e l’immigrazione sono temi di cui si parlerà a lungo. Le polemiche sull’attività della Guardia costiera libica, sugli accordi stipulati dall’Italia e sulle oggettive nefandezze perpetrate in quel Paese, si inseriscono in dibattiti politici nazionali e internazionali. Recentissimo è l’attacco particolarmente duro all’Unione europea ed all’Italia dall’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite che ha usato frasi quali: “patto disumano”, “oltraggio alla coscienza dell’umanità”, “inimmaginabile orrore patito dagli immigrati”. In particolare è stata giudicata disumana la politica italiana, sostenuta dall’Europa, di consentire alla Guardia costiera libica di riportate a terra chi cerca di fuggire pur sapendo che va a finire in campi invivibili.


Per contro Avramopoulos, l’alto commissario europeo per la politica estera, sostiene che l’Europa sta uscendo gradualmente dalla crisi migratoria perché gli arrivi verso il continente sono scesi del 65 per cento dall’anno scorso (31,2 per cento verso l’Italia secondo i dati del Viminale).
Altro dato: il dipartimento libico per la lotta all’immigrazione illegale parla di un aumento dei detenuti da settembre ad oggi da 7.000 a 20.000 dopo che in agosto Italia e Unione Europea hanno concluso l’accordo per addestrare la guardia costiera libica ad intercettare le imbarcazioni ed a riportare i migranti in Libia, grande punto di transito.
Quindi se gli arrivi sono drasticamente calati, in parallelo cresce la preoccupazione per gli abusi e il sovraffollamento dei luoghi di detenzione. In quelli di Tripoli gli osservatori dell’Onu hanno raccolto racconti di pestaggi, torture e violenze sessuali. In questo panorama così complicato si innesca un altro attore: le Ong. Infatti la decisione della Libia di istituire una propria area Sar (ricerca e soccorso) in mare ha rotto il giocoliere delle Ong che vogliono portare tutti i migranti in Italia. A rovinare quella che qualcuno ha definito la “festa umanitaria” non è stato però tanto il Codice di comportamento voluto dal ministro Marco Minniti e approvato dall’Ue e neanche le indagini delle procure di Catania e Trapani, ma appunto l’annuncio della Libia di voler istituire una propria zona Sar per gestire i salvataggi al limite delle acque libiche, mettendo all’angolo le varie Msf, Save the
children e Moas.
Tutto nasce quando in molti cominciarono a chiedersi per quale motivo le Ong potessero stazionare così vicine alla costa libica, recuperare barconi carichi di immigrati a poche ore di navigazione da Tripoli e traghettarli in Italia anzichè nel vicino porto di Zuara. L’articolo 9 della Convenzione Unclos stabilisce che ogni Stato costiero istituisca una zona Sar di propria pertinenza, un’area che si estende per circa 100 miglia nautiche oltre le acque territoriali. Alcuni paesi aderiscono e rispettano tale convenzione(come l’Italia), a Tripoli invece, fino a poco tempo fa, l’assenza di un’autorità stabile aveva di fatto annullato la capacità del Paese di pattugliare l’area e così le Ong intercettavano un migrante poco fuori (se non all’interno) le acque territoriali libiche e chiamavano a Roma il centro di
coordinamento del soccorso marino, il quale, non poteva far altro che indirizzare le navi umanitarie verso i porti siciliani o a La Valletta.
Recentemente, a seguito degli accordi proposti dall’Italia, la Libia ha istituito ufficialmente una zona di ricerca e soccorso (Sar) nella quale nessuna nave straniera ha diritto di accedere salvo richiesta espressa dalle autorità libiche. Conseguenza di ciò è che se la nave dell’Ong dovesse recuperare migranti all’interno della zona Sar di competenza libica sarebbe costretta a consegnarli alla Guardia costiera africana che li porterebbe a Tripoli nei centri per immigrati.
Questo per le Ong non è accettabile visto che vorrebbero sbarcare tutti i migranti in Italia (come da loro più volte dichiarato). Questo perché a ben vedere il loro obiettivo non è tanto il salvataggio, assolutamente doveroso, quanto l’apertura di canali umanitari per l’immigrazione. Scelta questa però riservata agli Stati. In questo scenario si inserisce il nuovo governo italiano: come noto il ministro Salvini ha dato lo stop all’approdo nei porti italiano a organizzazioni non governative, mercantili e navi militari straniere. Per il ministro dell’Interno: “L’elemosina Bruxelles la può tenere per lei, noi vogliamo chiudere i flussi in arrivo per smaltire l’arretrato di centinaia di migliaia di presenze, non chiediamo soldi ma dignità e ce la stiamo riprendendo con le nostre mani”.
Ed in effetti sembrerebbe che sul tavolo del Viminale sia già pronto il “contropiano” che potrebbe veder la luce già a fine estate, ovvero un decreto per cancellare “la protezione umanitaria istituita da Prodi” nel 1998, “rispedire nei paesi d’origine gli stranieri detenuti in Italia” e aprire un Centro di identificazione ed espulsione in ogni regione. Due posizioni diametralmente contrapposte. Da una parte Bruxelles che si propone di dare pieno sostegno finanziario per coprire le infrastrutture e i costi operativi dei centri con una “offertà di 6mila euro a migrante per gli Stati che accettano di accogliere i richiedenti asilo”. Dall’altra Salvini che respinge al mittente il piano elaborato dalla Commissione europea.
Secondo l’Huffington Post, verrà steso un decreto per abolire la protezione umanitaria. Si tratta di un particolare permesso di soggiorno istituito dall’ex premier Romano Prodi di cui gli immigrati possono beneficiare soltanto in Italia. Nel resto del Vecchio Continente nessun Paese lo ha adottato. Il decreto prevederà anche il rimpatrio degli immigrati detenuti in Italia che andranno a scontare la pena nei loro Paesi di origine. Una mossa che avrà un duplice effetto: l’immediata riduzione del sovraffollamento delle carceri italiane e il drastico taglio dei costi per l’erario pubblico. Dopo aver ridotto drasticamente gli sbarchi e fatto sparire le Ong dal Mar Mediterraneo, Salvini punta dunque a rimandare a casa tutti quegli immigrati che non hanno diritto di stare.
A cura del Vice Presidente ANCIS

INTELLIGENCE E STORIA – approfondimento

Nell’arco della Storia dell’uomo innumerevoli volte si è dibattuto su quanto “l’arma” dell’informazione potesse stabilire la vincita o la sconfitta di un popolo in una determinata guerra. I più hanno senza dubbio asserito che l’attività di intelligence (spionaggio e controspionaggio) potesse aiutare a conseguire un risultato finale soddisfacente dal punto di vista militare, ma non fino al punto di fare realmente la differenza. Eppure, diverse sono le dimostrazioni a beneficio della tesi che vede l’attività di raccolta ed analisi delle informazioni come un elemento di primaria importanza per poter stravolgere a proprio favore le sorti di una battaglia, e finanche di un’intera guerra.
Nell’antichità alcuni uomini appositamente addestrati venivano utilizzati per riportare preziose informazioni al committente (ad esempio gli Hyksos nell’antico Egitto, o Annibale che nel III secolo a.C. utilizzò suoi “esploratori” per conoscere la strada dell’Italia settentrionale più adatta a far passare con maggiore facilità il proprio esercito, composto sia da cavalleria semplice, che da truppe con elefanti) o per intimorire l’avversario tramite notizie “ad hoc”, prima ancora dello scontro diretto (Gengis Khan nel XIII secolo utilizzò proprio tale espediente). Una cosa che accomunava la raccolta di informazioni fatta in quelle epoche, con quella condotta ai giorni nostri, è il metodo relativo alla sistematicità della raccolta stessa, con citazione di fonti e altri dettagli utili a testimoniare l’affidabilità delle notizie riportate. Sun Tzu nel IV secolo a.C. fu il primo in assoluto a sostenere efficacemente che “Ciò che consente al sovrano assennato e al buon generale di colpire e conquistare e conseguire gli scopi è la preconoscenza”, ovvero che senza un certo impegno nel prevedere sia le mosse dell’avversario, che lo scenario bellico che si potrebbe andare a delineare, non si può essere certi di vincere le battaglie.
Sun Tzu
La sua famigerata opera intitolata l’ “Arte della Guerra” individua con estrema precisione analitica e mediante una raccolta minuziosamente ordinata i principi cardine della raccolta di informazioni militari. Altra opera antica di notevole importanza sull’argomento possiamo reperirla nelle “Istituzioni Militari dei Romani” di Vegezio (V secolo a.C.) in cui vengono enunciati principi sull’importanza delle notizie relative all’ambiente in cui i soldati avrebbero dovuto muoversi, oltre che ai percorsi di marcia più idoneii. Mitridate, poi, fu un fulgido esempio di condottiero ed esperto di intelligence, che amò condurre la raccolta di preziose informazioni militari in prima persona, vagando senza alcun mezzo di locomozione per l’Asia Minore, e diventando una delle più serie minacce per i Romani (tra i quali, invece, va ricordato con grande onore un ufficiale romano di qualche secolo successivo, il Generale Svetonio Paulino, che nel 62 a.C., grazie alla raccolta di notizie recuperate verbalmente dalle sue spie tra gli abitanti locali, con soli 10.000 uomini riuscì a sconfiggere ben 230.000 britanni).
Dopo qualche cenno di Storia antica, approdiamo dunque alle campagne militari medievali, nelle quali solitamente si assisteva all’impiego della fanteria classica, con soldati a cavallo, e con schemi bellici tradizionalmente ben noti ad ogni esercito. Questo stato di cose faceva si che la raccolta di informazioni fosse decisamente meno importante che in precedenza, ed assai meno di quanto lo sarebbe stata dalla seconda metà Rinascimento in poi (intorno al XVII secolo, in concomitanza della “rivoluzione della polvere da sparo”, iniziò un vero e proprio reclutamento di agenti e osservatori, con il contemporaneo utilizzo di precisi codici volti ad evitare che il nemico potesse decifrare le delicate informazioni sulla conoscenza della costellazione di Stati e città-Stato che erano appena sorte).
Un altro elemento che nel Medioevo faceva propendere meno per lo sviluppo di un’ordinata attività di spionaggio, era la limitatezza delle aree di estensione dei conflitti dal punto di vista geografico, e pertanto anche la scarsa influenza di notizie specifiche su queste. Eppure, durante le Crociate, molti furono gli Ordini religiosi-militari di matrice cristiana che utilizzarono a proprio favore fonti utili all’acquisizione di informazioni strategiche, così come, proprio in tale contesto storico, si potette assistere al primo esempio di depistaggio, di manipolazione dell’informazione per il raggiungimento di un certo fine, del primissimo autentico “debunking” pubblico.
Il riferimento specifico di tale accadimenti lo troviamo nella vicenda del famoso processo Templare; l’Ordine del Tempio, era nato nell’età della Prima Crociata per difendere Gerusalemme ed i luoghi santi di Cristo, esattamente come molti altri Ordini cavalleresco – religiosi (tra i quali è doveroso ricordare quelli più gloriosi come il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, poi divenuto di Cipro, Rodi e Malta, l’Ordine del Santo Sepolcro, l’Ordine Teutonico e quello di San Lazzaro).
L’Ordine Templare, costituito da monaci guerrieri fedeli unicamente al Papa, in pochissimo tempo dalla sua fondazione riuscì ad accumulare una quantità di beni e ricchezze veramente impressionante, con annesse speciali immunità ed esenzioni da tributi, fino allo scioglimento dell’Ordine stesso.

Sulla fine di questa importante compagine cavalleresca qualche studioso ritiene che i monaci furono sottoposti a torture e che queste funzionarono a tal punto da estorcere vere e proprie confessioni su presunte eresie consumate dagli stessi, mentre diversi altri storici sostengono che i Templari si discostarono realmente dalla dottrina originaria, e che non ci furono pressioni di alcun tipo in merito alle deposizioni rilasciate. Quasi certamente i membri dell’Ordine, accanto alla preghiera e all’arte del combattimento, iniziarono una fiorente attività diplomatica e bancaria su tutta l’aria del Mediterraneo, e ancora oggi è assai discusso il fatto che tale ascesa economica possa, o meno, essere stata mal vista dal re di Francia Filippo IV detto il Bello.

Una vicenda che si è tramandata fino a noi come una vera e propria leggenda è l’arresto dei cavalieri Templari, che si dice abbia visto luce venerdì 13 ottobre 1307, con la cattura di centinaia di essi (da qui è derivata la scaramanzia ancora attuale sulla data 13 associata la giorno del venerdì). Coloro che sostengono la tesi “complottista” ritengono addirittura che il re di Francia si fosse preventivamente provvisto di una fitta rete di infiltrati capaci di condurre perfettamente la vita dei monaci guerrieri (quindi prendendo anche i tre voti di obbedienza, castità e povertà) ed in grado di riuscire a raccogliere dall’interno accuse contro di essi, di un manipolo di spie sotto copertura capaci di ottenere un ampio dossier sulle debolezze, sui segreti, sui vizi e sulle contaminazioni scaturite da dottrine gnostiche orientali.
Le registrazioni di questi dettagli, amplificate in modo congruo a raggiungere l’obiettivo finale, furono date agli avvocati reali di Filippo il Bello, che riuscì a screditarli in poco tempo, fino a poter procedere alla loro cattura. Qualcuno sostiene addirittura che sia stata volutamente diffusa una lettera firmata da Jacques de Molay, il loro Gran Maestro, munita della “Bulla Magistralis” (cioè il suo personale sigillo d’argento): il documento, di cui comunque non rimane (volutamente?) traccia materiale, forte anche del voto di obbedienza totale dei monaci, ordinava a tutti i Templari di confessare le colpe a loro addossate nell’atto d’accusa. Del resto, vi è da dire che anche i frati guerrieri durante la prigionia usarono con molta probabilità dei codici segreti per confrontarsi su come reagire all’attacco, espedienti tipici dei migliori scenari di spionaggio, come ad esempio quello di far passare tra le celle delle piccole tavolette di legno cosparse interamente di cera: non appena un cavaliere leggeva il messaggio inciso in modo quasi impercettibile, doveva poi cancellarlo rapidamente, raschiando la cerulea sostanza. 
Tali notizie, però, non rientrano nella verità storica documentata, bensì nelle semplici ipotesi, seppur intrise di mistero e fascino, di qualche studio sull’argomento.
A parte questi affascinanti esempi di attività di Intelligence, il Medioevo fu un’epoca piuttosto scarna di altri esempi degni di nota. Fino al 1550, quindi, i fenomeni evolutivi sembrano aver avuto un’incidenza relativamente modesta sulle cosiddette “operazioni speciali”, ma è oltremodo provato che quest’ultime, fra il 1550 ed il 1914, subirono profondissime trasformazioni in termini di metodo, obiettivi, diffusione ed impatto socio-culturale.
A cura di Davide Sallustio
Saggista storico, studioso di Geopolitica e Relazioni Internazionali
Socio ordinario della Società Italiana di studi Militari SISM
Socio simpatizzante ANCIS
Fonti bibliografiche:
– Yuval Noah Harari (traduttrice: Rossana Macuz Varrocchi), Operazioni speciali al tempo della cavalleria 1100-1550, Collana: Le guerre, n. 49, Libreria Editrice Goriziana, 2008;
– Frale Barbara (storica e specialista di documenti antichi in servizio presso l’Archivio Segreto Vaticano), articolo pubblicato sul sito www.sicurezzanazionale.gov.itil 06-11-2015;
– Storia ed evoluzione dell’Intelligence (I conflitti ed il bisogno di informazioni), estratto dal sito www.difesa.it

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